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Il G(O)LOSSARIO - Lettera B

  • FLas
  • 25 apr 2020
  • Tempo di lettura: 4 min

Il binomio cibo-moda è sempre più indissolubile. Le occasioni d’incontro e di reciproca ispirazione sono molto frequenti. Del resto, le similitudini sono molteplici: la cura maniacale per i dettagli, la ricerca e la sperimentazione, la creatività, la manipolazione dei materiali, la selezione dei giusti ingredienti per far sì che il risultato sia di “buon gusto”.


Molte case di moda prendono spesso ispirazione dal cibo per realizzare le loro collezioni. Basta pensare agli abiti di Dolce & Gabbana con stampe che richiamano la pasta e il cartone della pizza, o a Jeremy Scott, che per la sua prima collezione per Moschino nel 2013, ha realizzato capi che rappresentano tavolette di cioccolato e sacchetti di patatine. Confezionata più di recente la capsule collection YesCarbs di GCDS, un vero e proprio invito alla dieta mediterranea, per la cui presentazione il Creative Director Giuliano Calza ha ridisegnato l’iconico pack di pasta Barilla e la confezione di spaghetti è diventata fucsia.

Processo inverso per Coca-Cola che negli anni ha siglato collaborazioni con importanti case di moda per far sfilare sugli scaffali dei supermercati fashion limited edition delle sue lattine. Stessa contaminazione per Disaronno o Acqua Evian (tra gli altri).

Si può dire quindi che stilisti e chef “mangiano nello stesso piatto”, ma non solo, “masticano” la stessa lingua! Molti dei termini usati tra i corridoi delle case di moda infatti sono gli stessi usati in cucina e viceversa.

Per questo, non so se capita anche a voi, ma a una “affamata di moda” come me spesso si presenta il dubbio quando all’uscita di una sfilata (che solitamente è programmata poco prima di pranzo o cena) sento parlare di Baguette: si riferirà all’iconica borsa di Fendi o al fragrante sfilatino francese?

E ancora, per passata s’intenderà quella di pomodoro o è semplicemente una persona con origini toscane (come me) che per la troppa fame si è lasciata andare ad un intercalare dialettale e intendeva il cerchietto tornato di moda per “condire” la chioma di capelli?


Ecco, di questi fraintendimenti tratterà “Il G(o)lossario”, un menù a doppia pagina dove la traduzione sarà a doppia lingua, quella della moda e quella della cucina.


Lettera B - Buon gusto


Da definizione, il gusto è il “senso con cui si percepiscono i sapori” ed è dunque quella percezione cognitiva tradotta in aggettivi con la quale si cerca di esprimere le caratteristiche organolettiche e le sensazioni che ci evoca qualcosa che è venuto a contatto con le nostre papille gustative.

Se dunque il termine gusto è innegabilmente sulla bocca di chef, critici gastronomici e intenditori più o meno amatoriali che, facendo riferimento a parametri universali, giudicano se un brodo è troppo salato, un babà troppo dolce o se la ratauille di verdure è insipida, spesso anche sulle riviste di moda, nei commenti sui social o per strada le recensioni su defilè e outfit dei passanti si lamentano che alcune mise son scondite di buon gusto.


Ma cosa vuol dire “avere buon gusto nel vestire?”

Questa la definizione di buon gusto da dizionario: complesso delle preferenze, delle tendenze, degli orientamenti di un'epoca; il che riconduce l’assenza di b.g nel vestire ad un abbigliamento che non asseconda un non meglio definito senso estetico convenzionale, trasgressivo di ogni canone, provocatorio e talvolta offensivo alla morale pubblica.

Se negli anni ’50 per una ragazza indossare un costume 2 pezzi era visto di “cattivo gusto”, adesso si dice che non ha gusto chi in spiaggia si presenta con dei “mutandoni” non assecondando i trend che vogliono bikini con sempre meno cm di stoffa.


Negli anni a molti stilisti, giornalisti di moda e professionisti del settore è stato chiesto “Cosa significa avere buon gusto?”.

Ecco le loro risposte:

La ricetta di Dior prevedeva semplicità, buon gusto e cura del proprio aspetto come ingredienti del “ben vestire”. Carmel Snow (ndr. caporedattore dell'edizione americana di Harper's Bazaar dal 1934 al 1958) abbinava al buon gusto sempre una dose di audacia; coraggio di uscire dagli schemi anche per Diana Vreeland (ndr. influente giornalista statunitense specializzata nella moda, considerata un'icona di stile negli anni ’60.).

Se Karl Lagerfeld ne faceva una questione di qualità, per cui non aveva buon gusto chi indossava capi cheap (un po’ come potrebbe essere definito chi fa la spesa nei discount o acquista prodotti a marchio anziché dei premium label), al contrario Diego Della Valle non lo riconduce a prezzo e lusso ma piuttosto ad un senso innato, impossibile da acquistare.

Dello stesso parere era Coco Chanel: “Il buon gusto nel vestire è qualcosa di innato, come la sensibilità del palato”.


Cara Coco, caro Diego,

purtroppo non tutti hanno questa capacità innata, basta pensare che c’è chi ancora indossa le calze color carne come fossero le pellicole degli insaccati, chi abbina i calzettoni bianchi ai sandali al pari di chi mettere l’ananas sulla pizza o il formaggio sugli spaghetti allo scoglio e non credo che esistano corsi di buon gusto come quelli per diventare sommelier o critici gastronomici.

Ad ogni modo, se io dovessi definire il buon gusto lo descriverei come “una selezione che elimina le abbuffate ingorde di accessori e fantasie in uno stesso look, le esagerazioni dei volumi su gonne e plateau per evitare di sembrare dei soufflè, ma anche i grandi digiuni di centimetri di stoffa su minigonne e scolli perché il piacere delle monoporzioni finisce subito si sa”!


E per te, cosa è il buon gusto?


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